La storia raccontata in realtà non è solo quella di Shuggie Bain del titolo: è tutta la sua famiglia ad essere protagonista del libro. A Glasgow negli anni Ottanta, Agnes e i suoi tre figli vengono abbandonati dal padre di Shuggie (Catherine e Leek, i due figli maggiori hanno un altro papà, altrettanto assente), in un squallido complesso residenziale abitato da minatori disoccupati, tassisti violenti e prepotenti, famiglie numerose e soprattutto molti ubriachi. Agnes, donna bellissima e affascinante, subito malvista al suo arrivo nel quartiere e considerata un pericolo dalle vicine invidiose, è costretta a crescere i figli coi sussidi statali perché sola, senza lavoro, né rendite. Non regge alla pressione e inizia a bere seriamente, autodistruggendosi a poco a poco, nell’alcol. A nulla vale l’amore sconfinato, incondizionato dei suoi bambini: i patetici tentativi della donna per mantenere le vane promesse di sobrietà suonano falsi e ipocriti. Solo Shuggie, costretto a crescere in fretta per badare a lei e sé stesso, continuerà a crederle ed ad illudersi di poterla salvare e sarà lui, come scopriremo, l’unico a non abbandonarla mai. Nonostante le continue delusioni per l’inesorabile sprofondare nell’abisso della dipendenza, infatti, Shuggie ama la madre sopra ogni cosa, crede in lei ed ha con lei un’intesa tutta speciale, quasi poetica. Ma l’alcolismo di Agnes e l’assenza del padre non sono gli unici problemi del ragazzino: spesso vittima di bullismo per il suo aspetto e il suo atteggiamento, per le sue tendenze e per giochi “alternativi”, Shuggie le tenta tutte per farsi accettare dai compagni, addirittura imparando a memoria un almanacco sul calcio per dimostrare di amare come tutti lo sport più popolare tra i suoi coetanei… Un piccolo, coraggioso eroe, dunque, Shuggie è veramente un personaggio indimenticabile.
L’autore ben descrive la Glasgow degli anni ’70, ’80 quando il tasso di disoccupazione era altissimo per la chiusura voluta dal governo delle miniere e dei cantieri navali. Se gli uomini erano in gran parte disoccupati, le donne, spesso senza titolo di studio, né competenze, avevano anche minori possibilità di trovare un impiego, costrette ad occuparsi dei figli e della casa senza poter contare su entrate regolari, e frequentemente abbandonate da mariti irresponsabili. Il romanzo è dunque, oltre ad una potentissima storia d’amore, il racconto sociale di una drammatica epoca recente. Crescere lì, in quegli anni, in quelle condizioni dev’essere stato difficilissimo e l’autore lo sa bene, essendo questa, almeno in parte, la storia della sua vita.
Grazie ad una prosa fluida e colloquiale dove, anche nella traduzione in italiano, si sente riecheggiare lo slang della working class scozzese, il libro, perfino nelle sue parti più crude, non ha mai un tono drammatico né pesante.
Booker Prize super meritato, dunque! Da leggere!
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