Una normalissima famiglia bianca, di Brooklyn, padre, madre sui quarant’anni, leggermente nevrotici, buon lavoro per entrambi ma senza grandi aspettative di vera ricchezza, due figli adolescenti, fastidiosi quanto basta, decidono di concedersi una settimana di vacanza a Long Island, affittando una bella villa, isolata, con piscina, trovata online. Sperano di passare qualche giorno di riposo e di tranquillità famigliare, concedendosi il lusso di fingere di essere qualcun altro, qualcuno con possibilità superiori alle loro, almeno per un po’. Non rovinerò il gusto della lettura anticipando nulla di saliente, basti sapere che dopo un paio di giorni durante i quali la famiglia si ambienta e comincia davvero a sentirsi in vacanza e “padroni” della bella casa, alcuni inattesi e strani episodi turberanno, e non poco, i quattro protagonisti. Il libro tocca tanti temi di estrema attualità: quello razziale (ecco perché ho specificato che la famiglia è bianca), quello della divisione delle classi sociali (la villa con piscina, ma solo affittata) la dipendenza dalla tecnologia e la concreta possibilità (e il Covid lo sta insegnando) che l’umanità possa essere spazzata via in quattro e quattr’otto. Leggendo, non ho potuto fare a meno di riflettere su questi aspetti che mi hanno davvero impensierito. Cosa sappiamo fare senza internet? Ci affanniamo per imparare ad usare strumenti sempre più sofisticati, trascurando altre abilità, che so, accendere un fuoco, trovare la strada senza navigatore, risorse necessarie in caso ad esempio, di una banale mancanza di corrente… Forse, non dovremmo permettere alla tecnologia di impadronirsi così della nostra vita e non è prudente dipendere completamente dai nostri smartphone. Il romanzo suggerisce inoltre che siamo abitanti di un pianeta che dividiamo con tante altre specie: dovremmo rispettarci l’un l’altro per una sana e proficua convivenza e per evitare tragici sovvertimenti, tipo, appunto, le pandemie.
Il libro di Alam, con il suo ritmo incalzante ed inesorabile, mi ha turbato e poco importa se il finale non spiega più di tanto. Il messaggio che l’autore ci invia è forte e chiaro. Lo affida a Rose, la figlia tredicenne, l’unica che sa usare gli occhi e guardare oltre, la sola che si rende conto che il mondo così com’è non può andare avanti e seraficamente ne accetta la precarietà. Non ci sono certezze, per nessuno, il nostro passaggio su questa terra è transitorio e temporaneo, prima ce ne renderemo conto, meglio sarà.
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